L'EDITORIALE. INSIEME NEL TERRITORIO PER LA VISTA E PER IL DONO
LA DONAZIONE DEI TESSUTI UMANI E L'IMPOSSIBILITA' DI TRARRE PROFITTO DAL CORPO UMANO E DALLE SUE PARTI
di Matteo Macilotti, Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento
Il principio in virtù del quale il corpo umano e le sue parti non possono essere, in quanto tali, fonte di profitto rappresenta un principio sancito tanto a livello europeo che nazionale.
La “Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina” (Oviedo, 1997), all’art. 21 prevede che «Il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto». Medesimo principio lo ritroviamo codificato nell’art. 3 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea ove si prevede che nell’ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati una serie principi, tra i quali è annoverato «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In Italia, il quadro normativo sul punto è altrettanto preciso e rigoroso e impedisce qualsiasi forma di commercializzazione non solo di sangue e organi, ma anche di qualsiasi materiale biologico umano donato.
Secondo i legislatori comunitario e nazionale, dunque, un tessuto umano, una volta staccato dal corpo, non rappresenta un bene al pari di qualsiasi altro bene circolante nel mercato ma, proprio perché derivante dal corpo umano, mantiene comunque uno status giuridico particolare, che lo pone nell’area dei beni extra commercium. I tessuti umani dunque, non soggiacciono alle regole del mercato, e la scarsità di tessuti o parti del corpo non può determinare il prezzo del tessuto o della parte del corpo, così come accadrebbe se dovessimo applicare le leggi del mercato.
Il divieto di fare del corpo umano e dalle sue parti, in quanto tali, una fonte di lucro, trova il suo fondamento nel rispetto dei diritti e della dignità dei donatori viventi e dei riceventi e sul rispetto dell’inalienabilità del corpo del donatore deceduto. Inoltre, esso contribuisce alla promozione della donazione altruistica, volontaria e non remunerata, rappresentando uno degli elementi più rilevanti del rapporto di fiducia tra il cittadino e la scienza.
Tale principio rimane tale sia nel caso in cui il tessuto donato sia oggetto di trapianto, ma anche quando il tessuto umano donato sia utilizzato a solo scopo di ricerca scientifica, ponendosi quale argine ad ogni tentativo di “commodificazione” del corpo umano.
Mentre il corpo umano o un suo tessuto, in quanto tali, non possono essere fonte di profitto, un elemento isolato dal corpo umano, o diversamente prodotto, mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione brevettabile. Tale regola, sancita dalla Direttiva comunitaria 98/44, in tema protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, e poi ripresa dal nostro Codice della Proprietà industriale, sembra apparentemente porsi in contrasto con il divieto di trarre profitto dal corpo e le sue parti.
Tuttavia così non è. Tale regola, infatti, è tesa a premiare coloro che, grazie alla loro capacità inventiva, sono in grado di «trasformare» un dato tessuto umano in qualcosa di diverso rispetto al tessuto in natura, mediante procedimenti tecnici che soltanto l’uomo è capace di mettere in atto e che la natura di per sé stessa non è in grado di compiere.