VIAGGIO NEGLI OSPEDALI, DOVE IL DONO SALVA LA VITA / Parte 1
NOI, GLI OPERATORI DELLA MEDICINA DELLE DONAZIONI.
CURIAMO PAZIENTI CHE NON CONOSCEREMO MAI, E FACCIAMO I CONTI CON IL "DOPO"
di Pantaleo Corlianò
Coordinatore operativo, Centro Regionale Trapianti del Veneto
Tutti noi medici ricordiamo il giorno in cui abbiamo deciso di iscriverci a Medicina. L’abbiamo fatto per salvare delle vite, per essere “quelli che guariscono le persone”. Ogni tanto ci ripenso, quando mi trovo tra colleghi medici e operatori della Medicina delle Donazioni. A differenza di molti altri specialisti, noi che lavoriamo per la donazione di organi e tessuti siamo spesso considerati quelli che arrivano “dopo”. Dopo che il paziente ha concluso la sua esperienza di vita. Dopo che “ormai non c’è più niente da fare”. Sempre dopo...
Eppure la nostra è una medicina come le altre: come nella chirurgia, o nei trapianti, anche nella Medicina delle Donazioni esistono iter diagnostici da mettere in atto, trattamenti da effettuare, personale dedicato. Esiste qualcuno, un donatore, di cui prendersi cura. Esiste insomma una cura vera e propria perché la donazione vada a buon fine, anche se il paziente, cioè il vero destinatario, non si trova lì. Il paziente che riceverà quel dono è in un altro ospedale, ha un volto ignoto e non conoscerà mai i medici e gli infermieri che si sono adoperati per lui: non se li è scelti come si sceglie il chirurgo che ci dovrà operare, non proverà riconoscenza come si è riconoscenti al medico che dopo un incidente ci ha reinsegnato a camminare.
Detto tra noi, non è sempre facile fare il medico se non hai di fronte il paziente che stai curando. Sarà per questo, forse, che la maggior parte degli operatori della Medicina delle Donazioni provengono dalle Rianimazioni. Io sono stato anestesista rianimatore per tanti anni: moltissimi nostri pazienti non ricordavano di essere mai passati per il nostro reparto. La nostra esperienza di cura era qualcosa da rimuovere, qualcosa che, per uno di quei meccanismi straordinari di cui è dotato l’essere umano, la mente cancellava perché troppo doloroso. Anestesisti, rianimatori, medici della donazione nell’ospedale sono infondo un apparato di servizio, sono utili ad altri. Eppure esistono per offrire una cura.
Chi ci troviamo a curare, allora, noi medici della donazione? Ovviamente, chi sta male. I familiari che incontriamo nei nostri colloqui, per esempio. Persone sofferenti che hanno appena perso qualcuno, a volte consolate dalla scelta di donare organi e tessuti, altre volte disperate, arrabbiate. E per offrire quella cura non sempre siamo preparati, noi che ci iscriviamo ad una professione in cui ti insegnano che ogni vita va salvata, ogni malattia guarita. Noi siamo chiamati in quei momenti a dare un farmaco diverso, fatto di ascolto, di dialogo, altre volte di silenzio, per chi magari ha soltanto bisogno di lasciar sfogare il suo dolore. Non è un caso, infatti, se nelle nostre équipe chi prende posto a quel colloquio è molto spesso un infermiere, qualcuno che sappia mettersi in relazione, un operatore che non abbia l’obiettivo di ottenere la donazione ma di accompagnare la famiglia, facendo anche un passo indietro quando serve.
Ecco, allora, cosa fa la Medicina delle Donazioni: cura pazienti e famiglie, rendendo possibile un dono. Realizzare che noi medici non possiamo salvare sempre tutti richiede coraggio: a guidarci deve esserci la consapevolezza che come medici abbiamo fatto di tutto per curare e dare benessere a ciascuna vita, che abbiamo operato senza togliere nemmeno un minuto ad ogni esistenza. E che quando la morte arriva, la donazione può essere un’ulteriore scintilla di vita. Un dono che si trasformerà in regalo per chi, a sua volta, se ne prenderà cura.