IN BRACCIO ALLE GRAZIE, ALLA FINE DELLA VITA
Una riflessione diversa sulla “buona morte”. E soprattutto, sulla cura giusta nell’ultimo tratto di strada.
di Sandro Spinsanti
Docente di etica medica e bioetica, Sandro Spinsanti ha diretto il Centro internazionale studi famiglia (Milano) e il Dipartimento di Scienze Umane dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, è fondatore dell’Istituto Giano e ha collaborato con Fondazione Banca degli Occhi sui temi delle “medical humanities”. Ha edito da poco il suo ultimo libro “Morire in braccio alle grazie” (2017, Il Pensiero Scientifico Editore).
No, non si tratta di una mossa strategica per deviare il discorso, pilotando l’attenzione su Eros per distoglierla da Thanatos… La proposta di una morte in braccio alle Grazie vuol indicare un percorso che riassume il modello di “buona morte” che molti nostri contemporanei hanno fatto nostro. Il riferimento è alle divinità che la mitologia greca ha posto a tutela della bellezza. Quelle che ci vengono incontro nella rappresentazione scultorea che ne ha fatto Canova; o che danzano leggere nella Primavera di Botticelli. Ci domandiamo, dunque: è possibile morire in braccio alle Grazie? Ugo Foscolo, che ha riflettuto a lungo sulle Grazie, dedicando loro un poema incompiuto, ha osservato che le Grazie rimandano a stati d’animo che si collocano tra “la smodata gaiezza e il profondo dolore”. Mutuiamo dal poeta i due pilastri che delimitano il territorio nel quale aspiriamo a incontrare le Grazie quali numi tutelari della “bella morte”, intesa come ideale etico dei nostri giorni.
IL PRIMO PASSO: IL CONTROLLO DEL DOLORE.
A un estremo collochiamo il “profondo dolore”. Parliamo proprio del dolore fisico. Non si può morire in braccio alle Grazie se non viene fatto quanto è possibile per tenere sotto controllo il dolore, inclusi i sintomi devastanti che sconvolgono la fase terminale della vita. Il percorso culturale che identifica nella terapia del dolore un aspetto prioritario della sanità pubblica ha prodotto anche una legge: “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” (Legge n.38/ 2010). L’obiettivo finale è che nasca nei cittadini la consapevolezza che avere accesso alle misure mediche per tenere sotto controllo il dolore è un loro diritto; e per i professionisti sanitari un dovere inderogabile fornirle.
All’altro estremo per delimitare il territorio delle Grazie Foscolo colloca “la smodata gaiezza”. Non credo che il poeta correlasse questo stato d’animo con la morte. Neppure pensando al suo Jacopo Ortis, che si compiace morbosamente nel percorso che lo porterà al suicidio. Ai nostri giorni, purtroppo, dobbiamo farlo. Il pensiero corre ai cosiddetti “martiri”, che concludono la propria vita in una morte cercata. E selvaggiamente procurata, a quante più persone possibile. Distanziandoci dall’ambito del terrorismo jiadista e del sadismo autodistruttivo, possiamo trovare altri esempi in cui il morire avviene in uno stato d’animo di “smodata gaiezza”. Un esempio indimenticabile è la morte del “Malato di cuore” cantato da Fabrizio de Andrè, rivisitando alcuni epitaffi del l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. La morte coglie il giovane nell’estasi amorosa, nella quale si era gettato infrangendo le limitazioni che gli imponeva la sua patologia.
IL NOME DELLE GRAZIE.
Concludere la vita in un raptus erotico: anche questo per qualcuno può essere qualificato come “chiudere in bellezza”. Ma non è quello che intendiamo quando, adottando il magistero foscoliano, parliamo di “morire in braccio alle Grazie” nello spazio emotivo che si apre tra la smodata gaiezza e il profondo dolore. Per dare concretezza al nostro sogno, cerchiamo di chiamare le tre Grazie per nome. Hanno nomi che, seguendo la loro etimologia, contengono un programma. Talia evoca accrescimento, abbondanza; Eufrosine equivale a felice equilibrio; Aglaia contiene in sé la serenità. E dunque: la morte può essere crescita? Si può morire in uno stato d’animo equilibrato, avvolti in un manto di serenità? E’ questa in concreto la sfida.
EUFROSINE, L'EQUILIBRIO.
La prima Grazia a cui ci affidiamo è Eufrosine. La mente saggia (phronesis) tiene sotto controllo le emozioni e guida le scelte. Soprattutto la scelta fondamentale: il giusto equilibrio (eu) tra interventi curativi e cure palliative. Ciò richiede il saper cambiare marcia quando la morte è inevitabile. Dall’accanimento terapeutico possiamo aspettarci solo una morte peggiore.
Su questo orizzonte troviamo, alla fine del percorso, la possibilità di una sedazione profonda, che tolga la coscienza. Quando i sintomi sono refrattari - basti pensare alle difficoltà respiratorie connesse con un’apnea incontrollabile - il malato può trovare sollievo in un intervento farmacologico che lo deconnetta in modo irreversibile. Anche il Comitato Nazionale per la Bioetica è giunto ad accettare questa possibilità, senza che nessuno sia autorizzato a evocare lo spettro dell’eutanasia (cfr. CNB: Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, 29 gennaio 2016).
AGLAIA, LA SERENITÁ.
La serenità che è il dono di Aglaia per molte persone è collegata con la convinzione di avere il controllo del processo del morire. “Sapere che ho la medicina in tasca mi dà serenità”: è stata la dichiarazione, molto reclamizzata dai media, di Brittany Maynard, la giovane donna americana affetta da un carcinoma inarrestabile al cervello, che ha deciso di accelerare la parabola della fine prima che la malattia producesse tutta la sua opera di devastazione. Non tutti si spingono fino a questi limiti del controllo attivo del processo di morte, richiedendo un intervento attivo per abbreviare il processo di degradazione fisica. Ma in tutto lo spettro delle posizioni etiche si registra un consenso crescente sul diritto all’autodeterminazione. Che comporta il rispetto della volontà di porre dei limiti ai trattamenti, espressa prima di perdere la facoltà di esternarla. Un diritto sancito dalla recente legge del dicembre 2017: “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
TALIA, LA MORTE COME COMPIMENTO.
L’abbraccio più difficile è quello di Talia: la morte come compimento di un percorso che conduce alla pienezza della propria umanità. Il nome rimanda, etimologicamente, alla fioritura e alla maturazione. Abbiamo tutti un doppio lavoro nella vita: costruire il proprio Io e poi quello di superarlo, confluendo in quella dimensione che possiamo chiamare “transpersonale”. E’ una prospettiva pensabile sia in un orizzonte religioso che in uno immanente. Non solo i credenti possono guardare oltre la fine della propria vita, considerandola come un compimento.
Eufrosine, Agalia, Talia: una morte “graziosa”, in braccio a voi, è il supremo dono che la vita ci può offrire. Ma anche un compito spirituale e un impegno etico, se vogliamo allinearci con la moderna cultura del vivere e del morire; ovvero di quel vivere che comprende anche il morire.